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Europa, Erasmus Plus, plus Europa

21 febbraio 2019

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giovedì 21 febbraio, giornata dell’Europa

Scrivo queste parole mentre mi trovo a Budapest, con un viaggio di istruzione delle classi quinte, onori ed oneri dell’essere insegnante.
Lo faccio con in mente una cartolina che riproduce una foto in bianco e nero, ritrae il ponte delle Catene, sul Danubio, ed una ragazza abbracciata al suo compagno, lui di spalle, lei sorride all’obiettivo. Bellissima e innamorata. La foto può sembrare vecchissima, invece si intitola “We are in the Eu!”, 2004.
Mi ha colpita molto accorgermi di questo titolo. In questi giorni abbiamo discusso lungamente con le guide dello stato di cose in Ungheria, di cosa significhi per loro, oggi, appartenere al proprio paese, essere magiari. Delle paure, delle necessità e dei desideri dell’essere europei.
Così, mi è tornata in mente una riflessione sottesa a molti dei miei pensieri, a proposito della parola identità. L’etimologia della parola è idem, identico, uguale a sé. Per questo è una parola che esclude, separando da tutto ciò che uguale non è. Costruisco la mia identità solo a partire da ciò che mi somiglia? Generalmente, sì. Riconoscendomi nella lingua che parlo, nelle relazioni che costruisco e nelle abitudini con cui queste relazioni si sviluppano divento ciò che sono, ciò che mi circonda mi è familiare e mi rispecchia, restituendo un’immagine di me.
Se si sta crescendo, ciò che non ci somiglia spaventa, facendo pressione su un guscio fragile. Se già si è cresciuti, il guscio si è inspessito tanto da confondersi con la nostra persona, ci è difficile uscire dagli schemi, giacché ogni movimento troppo ampio ci costa fatica o rischia di romperci.
Se dotati di un guscio rigido, abbiamo un confine al mondo netto. Nitido, ma escludente.
Se, invece, quando il guscio ancora si sta formando, ci misuriamo in esperienze che forzino il nostro confine, rischiamo di accorgerci che non è necessario avere un confine rigido.
La verità (parola ambiziosa) è che nulla siamo che non venga continuamente messo in discussione, sporcato, ridefinito da ciò che ci circonda, dalle relazioni con chi ci circonda. Come i disegni che da bambini si fanno con la porporina, che ci si passa sopra il dito e i colori si sfumano.
Si tratta di un pensiero destabilizzante, pure, il più onesto e coraggioso con cui possiamo crescere ed educare chi deve crescere.
Questo è, secondo me, il senso delle esperienze di Erasmus. Le settimane che si trascorrono altrove hanno questo potere, forzare il nostro guscio e sfumare i confini, con l’effetto paradossale di avere un disegno meno netto, eppure (spesso) più bello. Se da subito accettiamo che anche così possiamo essere noi ed anzi, possiamo forse esserlo a maggior ragione, la maggior parte delle nostre (come società e individui) barriere cadono.
Quando ci si misura con la porosità del confine, infatti, si attiva il nucleo più profondo che ci contraddistingue. Non si impiegano più le energie per difendere ciò che ci differenzia, per rafforzare il guscio, perché la sostanza più pura di cui siamo fatti, la nostra singolarità, si concentra nello sguardo. Tutto dipende dallo sguardo, dal modo in cui vedo il mondo.
Posso spostarmi fisicamente moltissimo e non essere in grado di vedere alcunché. Ma spesso- ne parlo da figlia della generazione pane ed Erasmus- esperienze come queste, cinque mesi in un’università, tre mesi di tirocinio, due settimane con dei colleghi sconosciuti ad osservare le scuole di un altro paese, cambiano lo sguardo.
E mettono in discussione il tuo guscio. Così, non è solo l’Inghilterra che conosci e il suo sistema educativo, ma è il tuo habitat (parola che somiglia molto ad abitudine) che impari nuovamente a guardare, i colleghi di sempre (sai, una di loro è vissuta in Giappone, ne conosce benissimo la cultura e un poco la lingua, e non ti sei mai data la pena di parlarne), le numerose occasioni in cui il mondo ti si presenta accanto ma non sei capace di vederlo.
L’educazione allo sguardo è la stessa che poi ti riporta a un tavolo di un ristorante magiaro, ad interrogare il presente e le molte nature dell’Europa, una casa comune bella e ancora tutta da costruire, avendo il coraggio di accoglierne tutto il passato e presente, ben lontano dall’esserti identico, cioè invece sempre plurale, sfumato, complesso.
Europa è soprattutto una questione di sguardo.
E se Europa è la capacità di saper guardare, è qui ed ora che la stiamo costruendo.

Chiara Sacchet, docente IPSSAR Beltrame

Eventi precedenti

EUROPEAN VET Skills Week

24 novembre 2017

ISISS G.B. Cerletti

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Towards CLIL Teaching

13 aprile 2018

ISISS F. Da Collo

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Growing Europeans

23 maggio 2018

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